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GLI ULTIMI DEI MOHICANI

DI SIMONE PACIFICI

Venerdì del weekend del Gran Premio di Monaco 1994: l’incidente di Karl Wendlinger avvenuto durante le qualifiche del giorno prima rappresenta il colmo per i piloti di Formula 1 dopo le tragedie a Imola di Roland Ratzenberger e del tre volte campione del mondo Ayrton Senna. Se nemmeno la morte del più grande tra di loro aveva smosso la FIA ad intervenire per stabilire delle norme di sicurezza in pista, era ora che fossero i corridori a darsi da fare.

 

Michael Schumacher, Gerhard Berger, Christian Fittipaldi e il già ritiratosi, ma ancora attivo nel mondo della F1, Niki Lauda decisero di ridare vita alla Grand Prix Drivers’ Association, seguendo la volontà di Senna della cui possibilità aveva discusso con loro proprio la mattina di quel tragico 1° maggio. Una scelta che ebbe conseguenze importantissime, tanto che la F1 divenne un campionato così sicuro che per 21 anni ci fu l’illusione che nessuno sarebbe più morto sui circuiti.

 

Un sogno che s’infranse con la dipartita di Jules Bianchi nel 2015 a seguito delle ferite riportate nel GP del Giappone 2014, riaccendendo il dibattito sulla sicurezza il cui risultato fu, su grande insistenza dell’allora presidente della FIA Jean Todt, l’introduzione nel 2018 sulle vetture (prima di F1, poi di altre categorie a ruote scoperte) del sistema Halo a protezione della testa dei piloti, unico vero punto debole delle monoposto da quel punto di vista.

 

L’Halo si sarebbe rivelato di grandissima importanza negli anni successivi, tanto che gli si può tranquillamente attribuire la salvezza di Charles Leclerc nel GP del Belgio 2018, di Romain Grosjean nel GP di Sakhir 2020 e di Guanyu Zhou nel GP di Gran Bretagna 2022.

 

Una F1 che sembra molto diversa da quella di oggi, dove le tre bandiere rosse sventolate durante il GP d’Australia appena avvenuto hanno generato situazioni di grave pericolo, sia per i piloti (soprattutto con la carambola alla seconda ripartenza che ha visto l’eliminazione di diverse vetture) che per il pubblico, con il ferimento di uno spettatore a causa dei detriti lanciati in aria dopo un impatto contro le barriere di protezione dalla Haas di Kevin Magnussen. E a peggiorare la situazione è stata l’invasione di pista negli ultimi istanti di gara di alcune persone che hanno eluso i controlli di sicurezza, rischiando di mettere in pericolo loro stessi e i corridori (e per la quale è stata aperta un’inchiesta).

 

Un’organizzazione che parla tanto di puntare al meglio per il pubblico, trovando un pretesto per tentare di cancellare circuiti storici come Monza e Imola (sicuramente migliorabili sotto tanti punti di vista, è innegabile), ma al tempo stesso ignorando che si corre in posti con guerre civili in corso (Jeddah) o dove la sorveglianza fa acqua da tutte le parti, solo perché evidentemente portatori di danaro (e allora tutto si sistema in questo magico mondo). Senza contare che lo show artificioso voluto da Stefano Domenicali e per estensione Liberty Media genera situazioni di enorme rischio in pista, dove le partenze dalla griglia sono un azzardo già quando avvengono con normale frequenza. Figurarsi se diventassero la prassi ad ogni GP con uno o più restart (ripensiamo a Zhou a Silverstone l’anno scorso).

 

Ma, ci chiediamo, dove sono i piloti oggigiorno, quelli che dovrebbero pensare alla loro sicurezza?

 

Pochi si ribellano a questo sistema che sta venendo fuori, dove si propone addirittura di diminuire le prove libere, e quindi la possibilità di sviluppare e settare a dovere le vetture (con le ovvie conseguenze del caso).

Max Verstappen è uno di questi, e avrebbe la possibilità di essere una voce importantissima come furono quelle di Michael Schumacher e Sebastian Vettel nelle loro epoche. Ma i due tedeschi, a differenza dell’attuale campione del mondo, erano supportati dai loro colleghi, mentre l’olandese della Red Bull si trova quasi da solo in questa battaglia, con una larga fetta (se non la maggioranza) dei partecipanti al campionato che appoggia con (non si sa se vero o forzato) entusiasmo le idee degli attuali padroni della F1. Forse nella speranza di ricevere benefit da questa “fedeltà”, o al contrario per non subire ritorsioni in caso di “defezioni”.

 

Fatto sta che questi piloti, così come i team e gli organizzatori, sembrano avere poco a cuore la sicurezza loro e degli altri (o poca consapevolezza di ciò), e a quel punto si capisce il perché Vettel abbia detto nel suo video di addio alla F1 lo scorso anno di non riconoscerla più come lo sport di cui si era innamorato. In un ambiente del genere, dove per paura di ritorsioni (penalità di tempo e multe per aver guardato male il direttore di gara o per non aver commentato in toni elogiativi le idee di Domenicali?) si lascia tutto così com’è e si trasforma uno dei più grandi sport al mondo in una sua triste parodia alla Scary Movie, forse non c’è spazio per quelli come Sebastian Vettel che dicono come la pensano.

 

Magari un giorno i signori di questa F1 troveranno il modo di “punire” Verstappen e i suoi (pochi) sodali per non essere conformi al pensiero unico imperante, quello dello show di successo adatto ai “giovani” e salvato dalle grinfie dei “vecchi”, neanche Bernie Ecclestone (con tutti i suoi enormi difetti) fosse Lucifero in persona.

 

Se ci si pensa, questi piloti rischiano di essere davvero gli analoghi motoristici degli ultimi dei Mohicani.

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